La validazione delle esperienze traumatiche

Chi mi conosce sa che negli ultimi anni ho approfondito molto la tematica del trauma e dell’impatto che questo ha a diversi livelli, emotivo, cognitivo, relazionale e corporeo. In questi giorni sto leggendo un libro davvero molto bello di Robert Muller, Il trauma e la lotta per aprirsi.

Pagina dopo pagina, non posso non pensare ai miei pazienti che hanno condiviso la loro storia in terapia e le loro difficoltà ad aprirsi con gli altri, a fidarsi degli altri. La fiducia è spesso il fulcro attorno a cui gira la terapia e le tematiche che affrontiamo insieme. Mi confronto talvolta col fatto che non posso, a un certo punto, dare per assodato di aver raggiunto una sicurezza nella relazione, ma che questo è un processo in continua revisione: la fiducia va guadagnata, va mantenuta, va rinsaldata.

Nella pratica terapeutica, mi è capitato a volte di entrare in un’impasse relazionale, da cui non riuscivo ad uscire, nonostante tutta la mia buona volontà. L’ostacolo consisteva nella percezione della persona che non potessi veramente capirla, percezione che mi lasciava impotente e con un sentimento di essere “chiusa fuori”, al di là di un muro invalicabile. Questi momenti mi hanno insegnato che spesso gli sforzi per abbattere questo muro sono controproducenti. Ancora peggio, sono i tentativi di proporre una lettura diversa, un’alternativa più funzionale, dal mio punto di vista ovviamente.

Se ci si ferma a riflettere, a osservare quello che sta accadendo, si scopre che l’impasse è davvero molto informativa: sta segnalando che qualcosa a livello della relazione non funziona. Quello che probabilmente sta accedendo, è che la persona non si senta validata nella sua esperienza.

Può darsi che nella relazione con il terapeuta, riviva una relazione importane della sua vita, in cui si è sentita in questo modo. Può anche darsi che il terapeuta sia così impegnato ad “aggiustare le cose”, che veramente non stia prestando attenzione a quanto gli viene detto, così com’è, nudo e crudo.

In queste situazioni è fondamentale riconoscere, validare e nominare, le esperienze traumatiche del paziente. A tal proposito, riporto un paragrafo di questo libro meraviglioso, perché non saprei dirlo con parole migliori.

“I sopravvissuti a traumi interpersonali – specialmente traumi nell’ambito della famiglia – sono spesso cresciuti in contesti invalidanti. Dal punto di vista della psicologa Marsha Linehan, l’invalidazione mina la comprensione da parte degli individui delle proprie esperienze, la loro conoscenza di sé. Li fa dubitare delle loro interpretazioni, delle proprie motivazioni e azioni.

Nella famiglia di origine, i sentimenti dell’individuo vengono ignorati, lasciandolo incapace di riconoscere o tollerare le proprie emozioni. In famiglie del genere, quando vengono condivise esperienze private, i sentimenti sono minimizzati, respinti. Incontrano critica o punizione. Venendo da un contesto di questo tipo, le persone travisano quello che hanno vissuto. Restano confuse su chi siano… I contesti invalidanti sono confondenti. Fanno sì che le persone giudichino con il senno di poi i propri ricordi, dubitano di ciò che sanno essere vero, trascurando se stesse. Sono lasciate a ignorare le proprie esperienze traumatiche, a diffidare della propria conoscenza di sé, chiedendosi:

è davvero successoa me? E se non è stata una questione così importante, perché mi sento come se lo fosse? Che cosa c’è di sbagliato in me?

Quando menzioniamo le esperienze traumatiche per quello che sono, le validiamo. Comunichiamo ai pazienti che quello che hanno passato, perso, sofferto… era vero. Non può e non dovrebbe essere ignorato o banalizzato. A meno che non validiamo l’esperienza della persona, coloro che hanno sofferto non sentiranno alcuna sicurezza in nostra presenza”.

Per approfondire: Robert T. Muller, Il trauma e la lotta per aprirsi. Dall’evitamento alla guarigione e alla crescita